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counseling

Giudicare é bello?

Il giudizio é un veleno, sia per chi lo pratica che per chi lo riceve, quando ha per oggetto l’identità delle persone e le loro qualità o difetti.

Chi vuole vivere bene, può sostituire il giudizio con il suo esatto contrario, che é la compassione, una delle vibrazioni più pure e più in grado di renderci davvero umani – e non un branco di autistici che blaterano a caso di empatia come accade per lo più oggigiorno.

Ma quando il giudizio è sui comportamenti, sulle decisioni, sulle condotte, su cosa é opportuno e cosa non lo é?

In quel caso, vale esattamente l’opposto.

Il giudizio, anziche sprofondarti, ti eleva e ti fa crescere, perché la distinzione tra il bene e il male é un momento fondamentale e irrinunciabile di qualsiasi percorso evolutivo e di crescita personale.

Facciamo degli esempi.

Tizio dice che Caia é una donna che non vale niente perché ha abortito.

Questo è il giudizio sulla persona, quello del primo tipo, che avvelena intanto subito comunque chi lo pratica e poi magari, se se ne lascia contagiare, anche chi lo riceve, la nostra povera Caia.

Tizio dice che l’aborto è un male e non va mai praticato.

Qui Tizio non offende nessuno – se Caia si sente offesa non è colpa di Tizio, ma solo di Caia stessa.

Tizio sta solo discernendo tra ciò che è bene e ciò che è male e sta testimoniando il suo punto di vista agli altri in modo che chi concorda possa mutuarlo.

Testimoniare, infatti, significa proporre e mai imporre.

Nel fare questo, Tizio definisce i suoi valori, i suoi confini e, dunque, cresce come persona.

Tizio condannerà sempre l’aborto, ma accoglierà sempre Caia, anche se questa avesse abortito 100 volte, perché lui giudica in astratto cosa è bene e cosa è male, ma é sempre pronto ad ascoltare i suoi simili, perché sa di avere peccato lui stesso per primo infinite volte.

Ma il fatto che ognuno di noi è, a sua volta, un peccatore non significa affatto che si debba rinunciare a dire male al male e bene al bene, cosa che, tutto al contrario, é nostro preciso dovere, per costruire noi stessi e per aiutare gli altri a costruire a loro volta loro stessi.

Le decisioni che prendi, i comportamenti che adotti e metti in pratica, non sono senza conseguenze. Nessuno ti giudica, ma quello che scegli di fare ha sempre delle conseguenze diverse a seconda della decisione che prendi, non puoi mai pensare che tanto é tutto uguale.

Lo so anche io che in una società di autistici sconnessi gli uni dagli altri, dove il counseling naturale é pressoché scomparso, é sempre più difficile prendere decisioni, ma proprio per questo é fondamentale testimoniare quello in cui si crede, perché solo così alcuni altri, che la pensano come te, si sentiranno meno soli e saranno più liberi di decidere veramente.

Devi essere sempre morbidissimo con gli altri, inflessibile sulle tue idee.

Sii un vero uomo, sii una vera donna, vieni nelle terre dell’anima.


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cinema

15 cose sul film Tapirulan.

1) Il dialogo chiave del film é:

– «Ma perché ci dobbiamo difendere da chi amiamo?»

– «Perché é solo chi amiamo che può farci del male»

2) Finalmente un film che parla del counseling, così forse le persone smetteranno di chiedermi sempre che cos’è 😂, anche se ciò che viene mostrato nel film non è vero counseling per diversi aspetti.

3) La counselor usa troppo spesso la parola «devi» con i suoi «clienti», fornisce consigli anziché limitarsi a fare domande, non fa le domande che sarebbero funzionali per i clienti, che a me invece durante la visione venivano in mente a dozzine, le sessioni sono troppo brevi e superficiali – naturalmente al cinema non si poteva fare diversamente, é un adattamento.

4) Quello che invece è piuttosto genuino é il «parco disturbi» di cui soffrono i vari clienti che si susseguono, che é più o meno quello che affronta settimanalmente un vero counselor.

5) Genuina é anche la ferita che, sin dalle prime battute, si vede essere presente anche nella counselor stessa e i gravi problemi relazionali della medesima; parlo spesso di questo: sono le nostre ferite, se abbiamo saputo integrarle, che ci rendono in grado di aiutare gli altri, non tanto i diplomi e gli studi.

6) Sul valore fondamentale delle ferite per poter aiutare gli altri, vai a leggere la storia di Chirone sul blog www.storiemairaccontate.it e, con l’occasione, iscriviti al blog per ricevere una nuova, fondamentale storia alla settimana, al venerdì pomeriggio.

7) La counselor protagonista del film, che vive perennemente camminando o correndo come un criceto su una ruota di fronte ad un pannello di vetro gigante, che sembra un gigantesco cellulare, tramite cui cerca di aiutare sia gli altri che se stessa é una grande metafora dell’uomo contemporaneo, delle sue nevrosi e delle sue miserie, soprattutto relazionali.

8) La pellicola sin dall’inizio trasmette una sensazione
claustrofobica, di angustia, di costrizione in ambienti chiusi, nei quali il mondo reale filtra solo mediante il monitor posto davanti al tapis roulant dove corre la protagonista o dalle finestre della casa, sempre come un qualcosa di lontano e poco raggiungibile, anche quando distante solo poche decine di metri.

9) La counselor protagonista offre la sensazione di una persona che conduce una vita insolita, che però oggigiorno é condivisa da tanti, non si capisce bene per quale motivo, e che tenta in qualche modo di restare a galla o respirare in un mondo per lei difficile, pertanto suscita fin dai primi minuti più un sentimento di compassione che di ammirazione, nonostante un commento sonoro che sembrerebbe voler essere celebrativo e che finisce per rendere ancora più stridente il contrasto.

10) Nel film sono tutti nevrotici, persino il «supervisore» della counselor che, mentre parla, stringe con la mano una pallina antistress, non vengono mai mostrati personaggi significativi in pace con loro stessi, centrati, sereni: tutti sono ansiosi, apparentemente come condizione perenne.

11) Si parla spesso di empatia, una qualità essenziale di ogni counselor, ma sul concetto si gioca anche, ricordando a riguardo un po’ il lavoro dello scrittore Philip K. Dick (sì, quello di Blade Runner) e mostrando limiti evidenti che i counselor non hanno nella realtà: la protagonista si fa aiutare da un sistema di «emotive tracking» a capire lo stato emotivo dei suoi «clienti» – una macchina le deve dire come stanno le persone con cui parla a monitor, insomma…

12) Dove il film delude é, come troppo spesso accade col cinema italiano, che sembra mutuare i difetti dagli sceneggiati tivù più scadenti, nell’aver infilato diversi luoghi comuni, come quello del marito cattivo che devasta di botte la moglie credulona (in 25 anni di attività come divorzista non ho mai visto un caso del genere, viceversa ho assistito a migliaia di gravi cattiverie da parte delle donne) e come quello del gay che viene malmenato (il cinema italiano é letteralmente passato dal portiere d’albergo gay dei cinepanettoni all’omosessuale menato perché è tale: c’è la coerenza di rimanere sempre e comunque lontani dal reale).

13) La delusione più grande é comunque il finale dove il tema del perdono, che é un aspetto fondamentale e centrale di ogni pratica di counseling, viene trattato con sciatteria, superficialità e quasi evitato, quando invece si sarebbe potuto davvero far meglio.

14) Tapirulan è un film dove tutti i personaggi positivi sono femminili, oppure maschi omosessuali, mentre quelli maschili etero sono tutti negativi: uno ha investito e ucciso un ragazzo e non si è fermato, un altro ha omesso di andare a prendere la figlia che così é salita sul motorino di un’amica andandosi a sfracellare, un altro ancora picchia la moglie, il padre della protagonista violenta la figlia.

15) Il pregiudizio verso i maschi é tanto fitto da tagliarsi col coltello. Il mio counseling per gli autori di Tapirulan sarebbe rivolgere loro queste domande:

  • come mai oggigiorno i maschi sono sempre cattivi, violenti, degenerati e le femmine poco meno delle sante?

  • c’è stato nella tua vita un maschio importante per te: un padre, un nonno, un fratello, uno zio, un insegnante che ti ha aiutato e dato una mano?

  • qual é il valore dell’arte e della commedia nella formazione dell’immaginario collettivo e nel benessere spirituale delle persone?

  • é importante secondo te che le persone stiano attente a quel che si mettono in testa, oltre che a quello che si mettono in bocca?

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ritagli

Apparizioni / sparizioni.

Il ghosting non è un fenomeno sociale, o sociologico, come oggi si finge che sia, ma una semplice e pura manifestazione di maleducazione, oltre che di immaturità e una mezza dozzina di altri disagi.

Molto banalmente, quando ti avvicini ad una persona lo devi fare con delicatezza, ugualmente quando te ne allontani.

Non è certo una tragedia accorgersi che una persona é diversa da quella che ti sembrava, sono situazioni in realtà facili da gestire quando si dispone di un minimo di qualità dell’essere: empatia, compassione, autenticità, ascolto e così via.

Interrompere una relazione in modo tranchant, e magari finendo anche per bloccare l’altra persona, oltre che un gesto di profonda maleducazione e involuzione, é probabilmente una conseguenza del processo di assimilazione dell’uomo alle macchine, con adozione della logica binaria on/off, una cosa che a me, che sono e resterò sempre un umanista, fa letteralmente orrore.

Il ghosting é una cosa che non fanno nemmeno i bambini dell’asilo, né, tantomeno, i veri cattivi, che non si priverebbero mai del gusto e del piacere di mandare a stendere una persona in modi lenti, sofisticati, raffinati e spesso di persona.

Il ghosting é un’esclusiva dei veri deficenters.

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counseling

Cambia la tua vita con un tappo di sughero al collo.

Il tappo al collo.

Nel luglio 1941, la regia Marina italiana partì con una piccola, ma agguerrita e, come vedremo, ben istruita, flottiglia di natanti alla conquista dell’isola di Malta (operazione Malta Due).

Siccome sarebbe stato importante sorprendere il nemico, era
fondamentale che i marinai mantenessero il silenzio, senza gridare,
fare versi o anche solo parlare.

La geniale soluzione escogitata dai vertici della Marina italiana fu
di munirsi di spago e tappi di sughero con il quale appendere al collo
di ogni incursore appunto un tappo.

Confezionate le collane per ogni marinaio, fu impartito l’ordine
tassativo di andare alla conquista di Malta stringendo tra i denti il
tappo di sughero. Se fosse, per un attimo, caduto, sarebbe stato
sufficiente recuperarlo prontamente e riposizionarlo tra i denti, con
lo scopo ultimo di assicurare il mantenimento del silenzio.

La spedizione non andò bene, ma questa idea del tappo di sughero l’ho
mutuata per molte coppie in crisi nel mio lavoro di counselor e
mediatore familiare, dove tra i vari primi interventi di emergenza
faccio spesso fabbricare questa collana dell’ascolto, che uno deve
attivare quando l’altro comincia a parlare e disattivare solo una
volta che l’altro ha terminato.

Quello che manca in molte relazioni, non solo quelle di coppia, é
proprio l’ascolto e spesso non manca per differenze culturali,
mancanza di tempo, problemi cognitivi o altro, manca proprio perché
uno semplicemente non ascolta, preferisce interrompere l’altro, sempre
troppo presto, per dire la sua.

Magari penserai che in fondo é normale, oggi va così, il mondo é un
turbinio, io cervello é una sfoglia di cipolla e via cazzeggiando, ma
io ti dico che senza ascolto non c’è relazione.

Senza ascolto non c’è relazione, su questo non ci sono cazzi.

Qualsiasi relazione: genitori figli, fratelli, amici, coppia e persino
umano animale.

Se ognuno dei due poli della relazione non è, tendenzialmente in
qualsiasi momento, disposto a farsi piccolo e a lasciare entrare le
emozioni dell’altro, per ascoltarlo e finire così a fargli compagnia
nelle sue stesse emozioni (compassione), stabilendo così quella
connessione che é l’unica cosa che serve ad affrontare i problemi,
allora quella relazione non è autentica: quella relazione,
semplicemente, non é.

Oggi, il 90% delle relazioni non sono autentiche.

Per questo i matrimoni non durano, i figli non ci corrispondono e
spesso li sentiamo come estranei, venendone ricambiati, le amicizie
sono di plastica, le donne sono solari e, generalmente, siamo meno
felici di quello che eravamo un tempo, sia come individui che come
generazione.

Possiamo fare in modo che le relazioni tornino ad essere autentiche e
il primo passo per andare in questa direzione é aprirci all’ascolto.

C’è un prezzo da pagare, ma ne vale la pena.

Legati un tappo di sughero al collo appena possibile e non avere paura
di usarlo tutte le volte in cui ti servirà.

Conclusioni

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